Gieseking interpreta Ravel

Gieseking interpreta Ravel

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Disco 1 lato A

Sonatina in fa diesis maggiore
Valses noble et sentimentales
Menuete antique

Lato B
Menuet sur le nom d’Haydn
A la maniere de chabrier
Gaspard de la nuit

Disco 2 lato A
Le tombeau de couperin
Prelude
A la maniere de borodine

Lato B
Miroirs
Pavane pour une infante defunte

Il posto occupato da Maurice Ravel nella storia della musica, cosi come la sua stessa personalità artistica, ha suscitato sempre polemiche e commenti contraddittori. Questo piccolo basco, che a volte non riusciva a nascondere la sua provenienza dai Bassi Pirenei ed altre rassomigliava a un vecchio marinaio intento a giochi infantili, come dice Maurice Délage, apparteneva senza dubbio all’ambito spirituale dell’impressionismo. Ma egli seppe anche raggiungere e conservare sempre una forma tutta sua e ben individuata. Tale individualità, inserita in un carattere decisamente equilibrato, lo avrebbe spinto a cercare sempre nuovi procedimenti per esprimere se stessa. La natura lo aveva dotato di una mano meravigliosamente sottile, di lunghe dita e di un pollice che poteva estendersi a coprire due note bianche contemporaneamente. E quindi al pianoforte che egli da la sua prima composizione quando era ancora allievo di Charles Beriot al Conservatorio; nasce quella Sérénade grotesque del 1894 che Roland Manuel pone all’origine di tutta la sua produzione in un’epoca in cui Ravel e affascinato dai Valrex romantique: di Chabrier ed e pienamente cosciente delle Sarabandex di Satie. Ma nel brano ci si sforzerebbe inutilmente di cercare quella tecnica del pollice di cui si e detto, cosi com’è assente quel senso ironico che caratterizzerà la sua produzione posteriore, un senso che è soltanto presente nel titolo. La tecnica raveliana e assente anche da Menuet antique del 1895 e dalla Pavane pour une Infante defunte del 1899 dove invece l`autore sfoggia un innato senso di equilibrio armonico che colora con leggeri tocchi una forma austera e un po’ arcaica. La forma che Ravel perfezionerà in seguito non si trova tanto dissolta nel colore quanto condensata in linee di incredibile cantabilità e in dolcissime sonorità. Il suo gusto armonico deriva soprattutto dalla combinazione di quelle appoggiature che non risolvono. La note a cote si attacca all’accordo, lo colora e lo ingemma. E sempre sostiene l’impalcatura la profonda sensibilità cantabile ed elegante che crea una musica espressiva e soggettiva. Il senso che ne deriva è quello di una malinconia sensuale. Seguendo Cortot, è interessante a questo punto notare le idee errate che impediscono una piena comprensione dell’arte raveliana. La prima di quelle affermazioni sostiene che Ravel fu emulo di Debussy, specie se si tiene conto di un’affermazione fatta dal musicista di Ciboure che sosteneva di aver capito che cos’era la musica “asco1tando per la prima volta il Prélude a l’aprés midi d’un faune”. Ma c’è anche una altra affermazione di Ravel che ridimensiona la questione. Accusato di plagio da Edouard Lalo per i suoi ]eux d’eau fece il punto tramite una lettera pubblicata dal giornale Le Temp: il 9 aprile 1907; “Lei si dilunga eccessivamente a mio parere, sopra un testo pianistico che ritiene piuttosto originale e di cui vuole attribuire la creazione a Claude Debussyt. Debbo avvertirla subito che ]eux d’eau e stato composto ed eseguito all’inizio dell’anno 1902. In quell’epoca, di Debussy erano noti soltanto i tre pezzi che compongono l’opera Pour le piano. Inutile riconfermare la mia sincera ed appassionata ammirazione per tale lavoro ma, per sottolineare l’inopportunità delle sue affermazioni sulla presunta influenza esercitata dall’illustre compositore nell’opera che lei critica, le debbo confessare la mia convinzione che Pour le piano, da un punto di vista strettamente pianistico, non ha rivelato nulla di nuovo”. E naturale che Ravel fosse interessato alle infinite possibilità e prospettive che l’arte di Debussy poteva offrire; ma non e men vero che Debussy abbia subito a sua volta l’influenza di Ravel, Ma per educazione, gusto, carattere, stile, i due sono completamente distanti e ognuno rappresentativo della musica francese. Una seconda idea decisamente errata e quella che vuole inesistente la sensibilità di Ravel. Le Temps del 1911 accusava il Ravel di Miroirs in questo modo: “Dove Debussy é tutta sensibilità, Ravel è completamente insensibile e prende a prestito senza esitare non soltanto la tecnica ma la sensibilità altrui”. In realtà questa idea critica può essere stata originata dalla ripulsa per l’autobiografia che Ravel sentiva prepotentemente e dal suo pudore con cui chiudeva in sé propri sentimenti che davano 1’idea del1’inesistenza della sensibilità nelle sue pagine. “La perfezione del suo mestiere ” dice Cortot, “che feconda la sensibilità rendendola creatrice, non è stata riconosciuta sufficientemente come una delle fonti del suo genio”. Un rigore inflessibile contrassegnava la musica di Ravel opponendola alla libertà di quella di Debussy. “Io non voglio che s’interpreti la mia musica “, disse un giorno l’autore dl ]eux d’eau a un gruppo di giovani che gli chiedevano lumi sul1’interpretazione, “e abbastanza che la si suoni”. Ancora più rivelatore e quanto scrive a jules Renard: “Il mio scopo è quello di dire con la musica quello che voi dire con le paro1e… Io penso e sento la musica. C’è la musica istintiva, sentimentale: la mia; e poi c’è la musica intellettuale: quella di d’Indy “. Sempre secondo Cortot, ci sono quattro principi essenziali che differenziano Debussy e Ravel: il carattere del linguaggio musicale, la realizzazione strumentale, la scelta dei soggetti e gli influssi. Proprio perché la sensibilità di Ravel è più contenuta e nascosta, in Debussy essa si manifesta a livello del genio; ma in Ravel e l’inte1ligenza che emerge in pieni poteri organizzativi. Come si e detto Ravel debuttò nella composizione con quella Sérénade grotesque rimasta inedita e composta a11’epoca del Conservatorio. Ma già l’anno successivo Ravel lasciava perplessi i componenti la commissione d’esame con il Menuet antique scritto proprio come prova d’esame. Sebbene la data di comp0sizK1e sia il 1895, il lavoro fu pubblicato molto più tardi da Enoch e quindi orchestrato. I _membri della commissione non erano certo abituati a trovare rama personalità in uno scolaro del Conservatorio infatti il Menuet, un insieme di “atticismo e di Amore parodistico” , rinchiude tutta l’essenza di Ravel con il suo ritmo nervoso la linea raffinata, la sottigliezza armonica. Non si tratta certamente di un’opera amena e la sua stessa cadenza gli conferisce una gravità che comunque non si riallaccia ai tempi arcadici. “un costante regime di ritardi e appoggiature”, dice Cortot, il gioco quasi severo delle imitazioni che fanno passare il soggetto dalla mano destra a quella sinistra, rivestono l’esposizione del Minuetto propriamente detto di un accento singolarmente volontaristico”. Sites auriculaires composto dall’Habanera e da Entre clochex appartiene alla stessa epoca, 1895-1896, ed e 1’opera alla quale si deve l’affermazione di Ravel. Scritta per due pianoforti e presentata da Ricardo Vines e da Marta Dron alla Société National nel 1898, Sites auriculaires presenta con l`Habanera un Ravel che ricorre a tutte le nuove sonorità e che, nonostante i suoi diciannove anni, proporziona meravigliosamente. Nel 1907 queste stesse sonorità presero la forma orchestrale e l’Habanera fu incorporata nella Rapsodia spagnola; nella loro forma originale i due brani che compongono Sites auriculuires sono rimasti inediti. Nonostante Gieseking non presenti queste due composizioni per due pianoforti in questa raccolta delle opere pianistiche di Ravel, e stato necessario un cenno sulla Habanera dato l’importanza che essa riveste nell’evoluzi0one del musicista francese. Notissima invece, ma ripudiata dal proprio autore, e la Pavane pour une Infante defunte scritta nel 1899 per pianoforte e più tardi orchestrata. Il titolo potrebbe far pensare a qualche terribile dramma dal quale Ravel avesse tratto ispirazione: invece, per lui, “suonava bene e basta”. Fu Raymond Schwab che abbinò alla musica in un secondo tempo il racconto di una “Infanta” spagnola che danzò questa Pavana il giorno del suo decimo compleanno e non volle mai più ascoltare altra musica all’infuori di questa. Ma Ravel non amava questa sua creatura: “Non provo nessuno imbarazzo a parlarne: è abbastanza vecchia perché sia abbandonata dal compositore nelle mani del critico. A cosi tanta distanza io non ne vedo più le qualità! Ma, ahimè, ne percepisco completamente tutti i difetti: l’influenza di Chabrier, troppo scoperta, e la forma abbastanza povera”. Un giorno però in cui ascoltava un pianista che la eseguiva in un tempo lentissimo la difese in questo modo: “Un’altra volta, si ricordi che io ho scritto una Puvane pour une Infante defunte e non una pavana defunta per una Infanta”. Rimane il fatto che le critiche di Ravel alla sua opera sono giustificate: la melodia è alquanto incolore, il fascino ha sapore dolciastro e la stessa maestria strumentale di Ravel è minacciata da sorprendenti goffaggini che sono parzialmente eliminate soltanto nella versione sinfonica, La costruzione musicale del brano è basata sulla triplice ripetizione della stessa frase melodica; ogni ripetizione è separata dall’altra da un intermezzo.

Mahler: Sinfonia nr.3

La Sinfonia n. 3 in re minore di Gustav Mahler, fu composta tra il 1893 e il 1896, ed eseguita per la prima volta solo nel 1902, è la più lunga sinfonia che sia mai stata scritta, una esecuzione dura infatti in media circa 95 minuti.

Scarica qui la sinfonia nr.3 di Mahler

Struttura

Nella sua forma definitiva la sinfonia è divisa in sei movimenti:
1. Kräftig entschieden (Forte e risoluto)
2. Tempo di Menuetto
3. Comodo (Scherzando)
4. Sehr langsam – Misterioso (Molto lento – misterioso)
5. Lustig im Tempo und keck im Ausdruck (In tempo vivace e sfrontato nell’espressione)
6. Langsam – Ruhevoll – Empfunden (Lentamente, tranquillo, profondamente sentito)

Il solo primo movimento, che dura all’incirca trenta o quaranta minuti, è la prima parte della sinfonia. La seconda parte è composta dagli altri cinque movimenti e dura fra sessanta e settanta minuti.
Come per tutte le prime quattro sinfonie, in origine Mahler aveva previsto una sorta di programma che aiutasse a spiegare il contenuto musicale della composizione; in questo caso aggiunse un titolo per ciascuno dei sei movimenti:
1. Pan erwacht. Der Sommer marschiert ein (Pan si risveglia, arriva l’estate)
2. Was mir die Blumen auf der Wiese erzählen (Quello che i fiori narrano)
3. Was mir die Tiere im Walde erzählen (Quello che gli animali della foresta mi raccontano)
4. Was mir der Mensch erzählt (Quello che l’uomo mi racconta)
5. Was mir die Engel erzählen (Quello che gli angeli mi raccontano)
6. Was mir die Liebe erzählt (Quello che l’amore mi racconta)

I titoli vennero eliminati prima della pubblicazione nel 1898.

Analisi
Il lunghissimo primo tempo (oltre mezz’ora di durata) inizia con un plastico tema eseguito dagli otto corni all’unisono, che verrà sviluppato per tutto il movimento; solo dopo una smisurata e cupa introduzione il movimento si trasforma a poco a poco in una marcia quasi orgiastica, in cui alcuni hanno visto la descrizione del risveglio del dio Pan
Il secondo movimento è un minuetto con il sottotitolo Was mir die Blumen auf der Wiese erzählen (Quello che i fiori narrano) che guarda decisamente alle atmosfere ovattate del classicismo mozartiano.
Il terzo movimento è una specie di cavalcata notturna con motivi rielaborati dal Wunderhorn, inframmezzato da lunghe oniriche frasi affidate ad una cornetta da postiglione (flicorno) posta dietro le quinte. Anche qui c’è un sottotitolo: “Quello che gli animali mi narrano”.
Nel quarto e quinto tempo Mahler fa di nuovo ricorso alla voce umana (lied per contralto, coro e orchestra che porta il sottotitolo: “Quello che sussurra la notte”). Nel quarto movimento un contralto intona alcuni versi tratti da Also sprach Zarathustra di Friedrich Nietzsche: il movimento è strutturalmente diviso in due strofe inframmezzate da un interludio orchestrale in cui sembra di sentire una reminiscenza della famosa canzone spagnola La Paloma.
Il quinto tempo (Quello che gli angeli mi narrano) è un breve lied di nuovo tratto dal Wunderhorn, intonato da un coro femminile con l’accompagnamento di un coro di bambini che imita onomatopeicamente il suono delle campane, rappresentando gli angeli. La sinfonia si conclude con un vastissimo Adagio in re maggiore (‘Quello che l’amore mi narra), introdotto da una lunga frase degli archi che sfocia nel tema principale, una sorta di corale che viene sviluppato nel corso del movimento fino ad apparire alla fine gridato a piena voce da tutta l’orchestra.
Il VI movimento chiude quindi il ciclo sinfonico, che nel caso della III sinfonia rappresenta la nascita della vita, rappacificando il groviglio sonoro creato con i movimenti precedenti.

Bach: Concerti Brandeburghesi nr.2 e nr.5

Bach: Concerti Brandeburghesi nr.2, nr.7

I sei concerti cosiddetti brandeburghesi, costituiscono forse la più nota opera strumentale del compositore tedesco. Vale la pena di sottolineare la particolarissima legge che guidò, durante tutto lo sviluppo della sua attività, i tipi, i generi di musica del grande Sebastiano. Si vede infatti, nell’alternarsi di momenti precisi dedicati alla musica organistica, alla musica corale, alla musica strumentale, una ragione non certamente intima, non certamente collegata a differenti stati d’animo, a diversi orientamenti artistici od espressivi, a particolari esperienze scolastiche od extrascolastiche; la legge che guida i cicli delle composizioni bachiane, é invece di carattere assai più pratico ed immediato; Bach componeva secondo le precise esigenze professionali richieste dalle singole situazioni dei suoi vari incarichi e dalle possibilità offertegli nelle diverse sue residenze. Cosi vediamo gran parte delle sue composizioni organistiche risalire al periodo di Weimar, perché là egli disponeva di un ottimo organo, e gran parte delle composizioni corali al periodo di Lipsia, perché la esisteva un coro ben preparato e perché ancora le sue prestazioni presso la Scuola di S. Tommaso prevedevano appunto tra l’altro la composizione di pagine adatte per i servizi religiosi. Ma vi fu un periodo, nella vita di Giovanni Sebastiano Bach, riservato alla musica strumentale; e fu il periodo passato presso la Corte di Cothen dove egli ricopri la carica di direttore della musica da camera dal 1717 al 1723. A Cothen Bach disponeva di un’ottima orchestra da camera; l’organo al contrario era di cattiva qualità ed il coro mancava del tutto; di qui la predilezione, in questo periodo, per le forme della musica strumentale. I Concerti brandeburghesi gli furono commissionati appunto in tale periodo dal principe Cristiano Ludovico, margravio della provincia prussiana del Brandeburgo e vennero chiamati in un primo tempo: Sei concerti per vari strumenti; L’appellativo di “brandeburghesi”, venne soltanto molto più tardi, con riferimento alla residenza del principe dedicatario. Mentre per altri aspetti le derivazioni cui si riallaccia Bach sono tutt’affatto tedesche (particolarmente per quanto riguarda le pagine organistiche e corali), nel campo del “Concerto”, é evidentissima l’influenza degli strumentisti italiani del 600 e del 700. ll “Concerto”, d’altra parte era una forma veramente italiana e si era andato, negli ultimi cento anni, organizzando entro formule architettoniche sempre più precise e razionali. I “Brandeburghesi” si richiamano proprio alla tradizione italiana del “Concerto grosso”; e l’aderenza allo schema di tale concerto balza immediata nella contrapposizione tra due elementi: gruppo di strumenti solisti (concertino) e il ripieno dell’intera orchestra (concerto grosso). Ma i Brandeburghesi, entrano nella storia del “Concerto grosso”, quando questo già si e evoluto rispetto alle forme primitive di un Corelli, ad esempio; già nell’uso dei fiati e del clavicembalo come solisti, c’é qualche cosa di nuovo, certamente di non sperimentato dagli italiani del primissimo settecento, e semmai, per quanto riguarda gli strumenti a fiato, soltanto dal Vivaldi; perché il concerto grosso tradizionale, nel cui quadro generale appunto il Corelli conserva una posizione di assoluta centralità, era composto soltanto da strumenti ad arco, sia nel “concertino” che nella più vasta sonorità del ripieno. Dei sei concerti brandeburghesi, quelli che più da vicino riprendono l’intenzione dinamica del “Concerto grosso” sono il primo, il secondo, il quarto ed il quinto. Gli strumenti chiamati a comporre il “concertino”, sono nel Secondo Concerto brandeburghese la tromba, il flauto, l’oboe ed il violino. Il primo ed il terzo tempo sono dominati dalla sonorità caratteristica della tromba, che esce con grande rilievo dai piani sonori dei legni e degli archi. Il primo tempo inizia con un tema ardito espresso dall’orchestra; poi il discorso passa a turno a ciascuno degli strumenti componenti il “concertino”, con continui interventi del “concerto grosso”; lo sviluppo di tale tempo é costruito poi sui motivi iniziali, Il secondo tempo, Andante , é scritto per flauto, oboe, violino e basso continuo (cembalo) che si può virtualmente considerare come un trio con accompagnamento di clavicembalo; si tratta di una pagina costruita contrappuntisticamente dove le varie voci esprimono a turno una frase distesa, dal contenuto quasi romantico, che viene però rigidamente organizzato nella lucida architettura prettamente bachiana. Il terzo tempo inizia assai vivacemente con un tema affidato alla tromba; intervengono poi, a riprenderlo ed a svilupparlo, il concertino ed infine il ripieno . Il quinto concerto, si avvale invece del concorso, nel concertino del flauto, del violino e del clavicembalo. Tale concerto si distingue da tutti gli altri per il fatto di avere appunto un clavicembalo tra i solisti ed in certi aspetti si può ben dire che proprio tale strumento assume un ruolo principale, in maniera da fare del quinto brandeburghese il geniale precursore di tutta la serie dei concerti per pianoforte ed orchestra, che tanta parte hanno nella letteratura sinfonica moderna. Particolarmente nel primo tempo, l’equilibrio é già assai simile a quello del concerto solistico la caratteristica autosufficienza del clavicembalo gli consente di sostenere lunghi ed architettati passaggi senza 1’ausilio delle sonorité del concertino e dell’orchestra, Il secondo tempo, Affettuoso é un delizioso trio per violino, flauto e cembalo. L’ultimo tempo riporta la brillantezza del discorso concertante, sostenuta qui da un ritmo più rapido e più deciso.

Mahler: Sinfonia nr.7

Mahler: Sinfonia nr.7

1 Satz: Langsam (Adagio) – Allegro resoluto ma non troppo

2 Satz: Nachtmusik (Allegro moderato)
3 Satz: Schattenhaft
4 Satz: Nachtmusik (Andante amoroso)
5 Satz: Rondò finale (Allegro ordinario)

Scarica qui la sinfonia nr.7 di Mahler

Gustav Mahler nacque a Kalist (Boemia) il 7 luglio 1860 da genitori ebrei poveri, iniziò lo studio della musica a 5 anni e crebbe a Iglau (Moravia).
All’età di quindici anni entrò nel conservatorio di Vienna, dove studiò pianoforte e composizione, ottenne vari premi e finì gli studi nel 1878.
Dal 1880 fu direttore d’orchestra e “Kapellmeister” a Hall, Lubiana, Olmütz, Kassel, Praga, Lipsia e, nel 1888, divenne direttore del Teatro Reale dell’Opera a Budapest.
Dal 1891 fu primo direttore d’orchestra ad Amburgo e nel 1897 fu chiamato all’Imperial Regio Teatro dell’Opera di Vienna diventandone presto il direttore.
I dieci anni della sua direzione (fino al 1907) sono considerati gli anni più brillanti nella storia gloriosa di questo teatro.
Dopo le sue dimissioni si impegnò quale direttore ospite presso la Metropolitan Opera House a New York (due stagioni) e più tardi assunse la direzione della Philharmonic Orchestra di New York in uno straordinario crescendo di notorietà, legata anche alle sue opinioni moderne in merito ai criteri interpretativi.
L’ ininterrotta attività di direttore d’orchestra lasciò a Mahler pochissimo tempo da dedicare alla composizione alla quale erano dedicati i mesi di vacanza. Per questo creò le sue migliori opere in montagna sull’Attersee”, sul Wörthersee” e dal 1908 a Dobbiaco.
Le frequenti tournée di concerti, per dirigere le proprie opere, lo portarono in giro per l’Europa nei più famosi teatri delle capitali e fu proprio durante una di queste tournèe che si ammalò gravemente e, tornato a Vienna, vi morì il 18 maggio 1911.
Molte opere di Gustav Mahler sono andate distrutte o perdute, ma ci rimangono:
– “Sinfonie I – IX”
– “X. Sinfonia” (frammento)
– “Das klagende Lied”
– “Das Lied von der Erde”
– “Lieder eines fahrenden Gesellen”
– “Canzoni da “Des Knaben Wunderhorn”
– “Kindertotenlieder”
– “Rückert-Lieder”

Mozart: Missa brevis

Mozart: Missa Brevis

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Lato A:

Missa Brevis in D Major K.194
Kyrie – Gloria – Credo – Sanctus – Benedictus – Agnus Dei
Annelore Cahnbley-Maedel soprano
Margarete Kissel contralto
George Maran tenore
Walter Raninger basso
Franz Sauer organo

Lato B
Kronungs-Messe in C major K.317
Kyrie – Gloria – Credo – Sanctus – Benedictus – Agnus Dei
Friedemann Wonesch soprano
Werner Krenn Alto
Erich Majkut tenore
Walter Berry basso
The “Wiener Symphoniker”
Rudolf Moralt dirige

Schubert: Quintetto in do maggiore

Schubert: Quintetto in do maggiore

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Lato A:

Primo movimento: Allegro ma non troppo
Secondo movimento: Adagio

Lato B
Terzo movimento: Scherzo-presto, trio andante, sostenuto
Quarto movimento: Allegretto
Schubert: Quartettsatz in C minor Op.posth.
Allegro assai

Se esiste un dio dei musicisti, nel periodo tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento “forse era stanco, forse troppo occupato. . . ” (ogni occasione è buona per citare De André). Mozart visse 35 anni, Schubert 31, Mendelssohn 38, Chopin 39, Schumann 46: la falce agiva quasi con regolarità, tanto che i 56 anni raggiunti da Beethoven sembrano un bel traguardo, se si toglie il piccolo particolare che quasi metà li passò da sordo. Destini maledettamente crudeli, come si vede, ma nessuno come quello di Franz Schubert, non solo per l’età assurda in cui fu stroncato, ma soprattutto perché ciò avvenne in una fase decisiva della sua evoluzione artistica, in cui il creatore di perfette miniature come gli innumerevoli Lieder, gli Improvvisi e i Momenti musicali per pianoforte, aveva iniziato a pensare in grande, e con risultati straordinari, così straordinari che la maggior parte del pubblico europeo (e in particolare viennese) all’epoca non era ancora matura per apprezzarli in pieno.

L’ultimo anno della sua vita, il 1828, fu eccezionalmente denso di opere grandiose in ogni campo, tutte destinate ad essere rivalutate solo parecchi anni dopo la sua morte

Già notevole come dimensioni complessive (quasi un’ora), il Quintetto presenta addirittura durate mahleriane nei primi due movimenti. Il poderoso “Allegro ma non troppo”, che lo apre, ha una ricchezza tematica e una complessità veramente sinfoniche, con in grande evidenza il contrasto tra un primo tema esuberante e trionfale, e un secondo più cantabile e riflessivo, ma pur sempre agitato da veri e propri “brividi” dei due violoncelli. Anche i successivi complessi sviluppi dei due temi continuano ad alternarsi e al tempo stesso si intrecciano a nuove idee musicali, tra cui una specie di marcia che compare a metà del movimento, finché non ci si rende conto che se ne sono volati via 20 minuti, e non abbiamo la minima sensazione di pesantezza. A questo punto parte l’incredibile “Adagio”, culmine espressivo del Quintetto, uno dei pezzi di musica più commoventi ed intensi che siano stati mai concepiti, anche se le note rarefatte e tenute ossessivamente lunghe dei violini e delle viole, con il pizzicato dei violoncelli che le accompagna, suggeriscono piuttosto un momento di ipnosi surreale, di staticità che sembra non avere mai fine. In realtà sotto sotto la tensione cresce, ed esplode drammaticamente a metà del tempo, con un’allucinante scossa che sembra attraversare tutti gli archi, con fremiti paragonabili ad una vera e propria crisi di pianto e convulsioni, che poi gradualmente si placa con il ritorno alla staticità della prima parte, ormai però turbata per sempre dall’episodio centrale. I successivi due movimenti, più brevi e più vivaci, tentano di scaricare l’enorme tensione che si è creata. La brusca entrata dello “Scherzo. Presto” sembra riuscirci: è quanto di più vicino ad una fanfara sia possibile suonare con degli archi, un’energica ventata che spazza via una buona parte delle nubi più cupe, ma già il “Trio, Andante sostenuto” che gli fa da necessario contraltare ripropone tracce di dolorosa inquietudine. Il quarto e ultimo tempo “Allegretto” è in effetti l’unico rifugio di serenità dell’intera opera, con il suo inizio vivace da danza tzigana e i suoi successivi sviluppi dolcemente cantabili, ma ormai è tardi per diluire interamente il veleno dell’angoscia, un dolcissimo e inebriante veleno che si impadronisce dell’animo di qualsiasi ascoltatore, anche di sensibilità non troppo elevata.

Capolavoro assoluto, ma da prendersi a piccole dosi: è l’opera di un uomo che sembra intuire che di lì a due mesi, alla maledetta età di 31 anni, dovrà lasciare per sempre la musica. Almeno quella terrestre.

Luig Boccherini: Stabat Mater

Boccherini “Stabat mater” a tre voci e archi.

Luciana Ticinelli Fattori primo soprano
Ille Brinkman secondo soprano
Adriano Ferrario tenore.
Orchestra e coro della Polifonica Ambrosiana diretto da mons. Giuseppe Biella

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La fama musicale di Luigi Boccherini e legata quasi esclusivamente alle sue composizioni strumentali, mentre poco conosciute sono le altre sue composizioni e precisamente: un’opera “Clementina “, due oratori “Giuseppe riconosciuto” e “Gioas re di Giuda “, una “ Messa “ a quattro voci con strumenti, una “Cantata “ e alcuni ”Mottetti” per il Natale, a quattro voci con coro e strumenti, alcuni “Cantici Sacri” a quattro voci e orchestra, alcune “Arie accademiche” e infine lo “Staba! Mater “. Se dovessimo giudicare la produzione vocale boccheriniana dallo “Stabat “ dovremmo affermare che questa non è certo inferiore a quella strumentale. Il testo della famosa sequenza attribuita a Jacopone da Todi (1230 circa, 1306), esaltante il dolore della Vergine Madre ai piedi della croce, commosse profondamente l’animo religioso di Boccherini, che lo musico negli ultimi anni di una vita tanto provata da intime pene e da una fortuna quasi sempre avversa, e gli ispirò sublimi melodie che armonizzate sapientemente e con raffinatissimo gusto raggiungono una sincerità e una verità di espressione, sia pure drammatica e lirica, che ci eleva in commossa e religiosa contemplazione del grande mistero divino e umano. La composizione è per due soprani, tenore e quintetto d’archi. E’ del 1800 e la stampa del 1801. Le diverse strofe sono musicalmente tradotte, in una serie di recitativi, arie, duetti, terzetti, in uno stile affine a quello del teatro d’opera ma contenuto in una linea più sobria e meditata, qualche volta con accenni alle forme più semplici della fuga. L’autore esigeva il semplice trio vocale accompagnato da soli cinque strumenti. L’edizione “Guidi” (Firenze 1877), il presentatore della quale afferma di avere copiato fedelmente la prima stampa, porta il seguente frontespizio: “Stabat Mater a tre voci con il semplice accompagnamento di due violini, viola, violoncello e basso., composto da Luigi Boccherini in Madrid 1800 – opera 61” e porta nello stesso tempo, tanto nella parte vocale, come in quella strumentale, alcune indicazioni di “solo” e “tutti “. L. Picquot, nella monografia Notices sur la vie et les ouvrages de Luigi Boccherini (1851), in cui raccoglie una grande quantità di documenti sul Maestro, dice che lo Stabat non esige una grande orchestra. La stesura musicale della prima e delle ultime due strofe fanno senz’altro preferire l’esecuzione a coro. Abbiamo deciso per una esecuzione che, a nostro giudizio, meglio si addicesse alle caratteristiche del discorso e della costruzione musicale, facendo intervenire i soli, il coro e l’orchestra d’archi, in modo da conservare il sicuro carattere cameristico dell’opera, senza turbare e appesantire il mirabile gioco con cui voci e strumenti si intrecciano con semplicità e sapienza, e senza tuttavia ridurre il tutto ad una realizzazione troppo scarna per una composizione permeata di calore espressivo, ora dolce e commosso, ora vibrante ed appassionato.
GIUSEPPE BIELLA
Bisogna fare una premessa prima di parlare di questo Stabat Mater, bisogna dire che ogni nuova incisione di opere di Boccherini è benvenuta poiché serve a sempre meglio chiarire 1’orizzonte artistico di questo musicista, intorno al quale e solo da poco sorto un particolare ed approfondito interesse. In questo caso specifico poi, trattandosi del1’incisione di un’opera assolutamente rara, il disco realizzato da don Biella con la sua Polifonica Ambrosiana assume un’importanza che va al di la del solo interesse. Questo Stabat Mater, infatti, viene a chiarire parecchie cose intorno allo stile vocale, cameristico e sacro di Boccherini, e, nello stesso tempo, apre uno spiraglio sul fatto umano dell’autore. Una prima stesura, infatti, portava la data del 1781, ed era redatta per una sola voce. L’attuale esecuzione riprende invece, il definitivo rifacimento del 1800, stampato nel 1801, come Op. 61, redatto per tre voci, 2 violini, viola, violoncello e contrabbasso. Ambedue le versioni, comunque, vengono create negli ultimi anni della vita dell’autore; vita piena di stenti, di disillusioni, di miseria autentica, di umiliazioni. I1 ripiegamento sul testo di Jacopone, pieno di commosso dolore, assume, quindi, uno speciale significato umano, proprio, fors’anche perché avvenuto spontaneamente, come conseguenza del maturarsi di una condizione spirituale che sentiva tramutare i suoi accenti alla ricerca di un religioso avallo, di una comunanza più profonda nel dolore con chi, come la Vergine, poteva dare un più alto senso alla sofferenza. I1 fatto è che con lo Stabat Mater di Boccherini, ad un certo momento ci si accorge di essere ben al di
fuori di un elegante ed irreprensibile discorso di voci e di strumenti e che la melodia ha, nel suo svolgersi, una ragione intima che, a tutta prima, ci sfugge ma che, a poco a poco, rivela i momenti di una sua intensa emozione e di una aderenza dolente al testo che e sentita e convinta. C’é chi, a proposito di questo Stabat Mater, ricorre alla solita storia dello stile operistico. A noi sembra solo un atteggiamento sbagliato di chi vuole dimostrarsi colto e raffinato di orecchio. Sbagliato, perché, oltretutto, l’osservazione reca in se qualcosa di negativo e di limitativo che non ha ragione di essere, dal momento che ognuno ha il diritto di rivolgersi a Dio nel modo che ritiene più opportuno e, quindi, più spontaneo. In secondo luogo, perché non è affatto obbligatorio che un pezzo sacro debba per forza obbedire a regole di etichetta e di forma prestabilite, poiché non sono queste che danno il tono religioso al pezzo, bensì lo spirito che anima le note e le sorregge. E con Boccherini si tratta proprio di religiosità pura e candida, anche se i recitativi, le arie, i duetti, i terzetti si susseguono secondo una prassi spesso operistica e, diciamo pure, un mestiere tipici del suo tempo. Il Picquot, parlando dello Stabat Mater, lo definisce un capolavoro e, a nostro parere, non ha torto sia se lo considera dal punto di vista stilistico che da quello poetico. Il Picquot, anzi, dando alcune brevi indicazioni sulle possibilità d’esecuzione, esce in una acutissima frase: “ …L’auteur désire la pure naiveté et 1’exactitude », riuscendo a definire in modo assolutamente proprio, con il termine di ”naiveté”, la qualità intrinseca di questa musica. Don Biella ha affrontato 1’esecuzione del capolavoro boccheriniano con la solita affettuosa cura e con fin troppo timore reverenziale. Nella sua esecuzione si avvertono tutte le buone intenzioni che egli nutriva; ma sono realizzate a metà. L’altra metà é legata da una correttezza che frena un po’ l’espandersi del canto e il respiro espressivo della frase. Si tratta, tuttavia, di un’esecuzione valida sul piano artistico, alla cui realizzazione hanno concorso in modo lodevole il coro il complesso strumentale della Polifonica Ambrosiana e i tre solisti di canto citati in principio, tra i quali fa spicco, per 1’intensita esprcssiva e bellezza di canto, Luciana Ticinelli Fattori. Incisione tecnicamente, fedele e precisa.
Vittorangelo Castiglioni