Beethoven: Sonate per violino e pianoforte

BEETHOVEN
Sonate per violino e pianoforte

Scarica le sonate per violino e pianoforte di Beethoven


File A: Sonata in re maggiore op.12 n.1
Allegro con brio – Tema con variazioni – Rondò allegro

File B: Sonata in la maggiore op.12 n.2
Allegro vivace – Andante piuttosto allegretto – Allegro piacevole

File C: Sonata in mi bemolle maggiore op.12 n. 3
Allegro con spirito – Adagio con molta espressione – Rondò allegro molto

Fine D: Sonata in la minore Nr 4 opera 23
Presto – Andante scherzoso più allegretto – Allegro molto

File E: Sonata in fa maggiore opera 24 “La primavera
Allegro – Adagio molto espressivo – Scherzo – Rondò allegro ma non troppo

File F: Sonata in la maggiore op.30 n.1
Allegro – adagio molto espressivo – Allegretto con variazioni

File G: Sonata in do minore op.30 n.2
Allegro con brio – Adagio cantabile – Scherzo – Finale allegro

File H: Sonata in sol maggiore op.30 n.3
Allegro assai – Tempo di minuetto ma molto moderato e grazioso – Allegro vivace

File I: Sonata in la maggiore op.47 ” a Kreutzer”
Adagio sostenuto. Presto – Andante con variazioni – Finale. Presto

File L: Sonata in sol maggiore op.96
Allegro moderato – Adagio espressivo – Scherzo – Poco allegretto

Beethoven intraprese la composizione delle sue prime Sonate per violino e pianoforte relativamente tardi, e sole dopo essersi cimentato nelle due imponenti Sonate per violoncello e pianoforte dell’op. 5, d’incomparabile importanza per quanto riguarda l’evoluzione del linguaggio beethoveniano nell’ambito del genere cameristico per pianoforte e strumenti. Scritte poco prima del 1799, l’anno della loro pubblicazione, le tre Sonate op. 12 furono dedicate a Salieri, il maestro italiano cui Beethoven si sentiva debitore di consigli più o meno utili in materia di stile vocale e teatrale. I soli modelli presi in considerazione da Beethoven furono quelli mozartiani, poiché soltanto Mozart aveva detto una parola decisiva in questo campo, lasciando una serie di capolavori nei quali pianoforte e violino dialogano modernamente con parità d’importanza nell’ambito di una dialettica squisitamente concertante. Nelle tre Sonate dell’op.12 Beethoven non fece che portare tali modelli al massimo sviluppo. Si può anzi affermare che, ad eccezione della monumentale e sotto molti aspetti, rivoluzionaria Sonata a Kreutzer, tutte le altre Sonate beetheveniane per pianoforte e violino, non esclusi capolavori come l’op. 96, non si discosteranno di molto da questa linea, assai più cauta e tradizionalistica di quella seguita, per esempio, dalle sonate per pianoforte e violoncello (per non parlare di quelle per pianoforte sole). La soggezione a Mozart si manifesta, nell’op. 12, anche nella persistente fedeltà a stilemi caratteristici come quelle d’iniziare l’ultimo tempo a mo’ dl finale da concerto, con l’enunciazione del tema compiuto dal solo pianoforte. Nelle Sonate op. 12 l’inconfondibile colpo di pollice beethoveniano é pero presente ovunque: nel vigoroso tema iniziale del primo tempo, e in quelle e Rondò della brillante Sonata in re maggiore, che, per contro, ha come secondo movimento un Andante con quattro elementari variazioni di una simmetria strutturale e di un candore melodico che fanne pensare ad Haydn. Se la prima Sonata della serie si può considerare un brillante pezzo da concerto, caratterizzato da una generica euforia ritmica e tematica, la seconda, in la maggiore appare già come qualcosa di totalmente diverso fin dalle prime battute dell’Allegro vivace, nelle quali il violino, con una trovata stravinsklana ante litteram, accompagna umoristicamente a guisa di chitarra il capriccioso disegno del pianoforte. Per tutto il pezzo pianoforte e violino cercano di contraffarsi vicendevolmente nelle rispettive caratteristiche tecniche e timbriche, con una serie inesauribile dl trovate la cui novità spiacque alla Gazzetta universale dl Lipsla, che accusò Beethoven di non sapere usare con proprietà gli strumenti. L’Andante piuttosto Allegretto, una breve elegia in la minore, e l’Allegro piacevole conclusivo che accomuna le caratteristiche delle scherzo con quelle del Finale, ribadisce il carattere estroso e assai personale di questa Sonata. Nel primo tempo della terza Sonata della serie, in ml bemolle maggiore, Beethoven ritorna alle stile brillante, mentre l’Adagio col sue grave incedere neoclassico, sembra la parafrasi strumentale di un’aria del Cherubini più togato. Il rondò, col suo fresco tema alla Mozart e l’iridescente dialogo dei due strumenti è il migliore dei tre movimenti e fa gravitare su di se il peso dell’intera opera.
Le Sonate op. 12 furono ben presto seguite da altre due, dedicate al conte Moritz von Fries, uno tra i più attivi mecenati del Maestro. Apparse originariamente riunite sotto il numero d’opera 23, le due nuove Sonate, in la minore e fa maggiore, entrarono in seguito nel catalogo beethoveniano come op. 23 e 24. Dietro caratteristiche formali pressoché immutate, tali lavori presentano una impronta più personale, rilievi più vividi e spiccati. Ciò e particolarmente vero per l’op. 23 che ha inizio con un Presto in ritmo dl giga, dalla tinta (come avrebbe detto Verdi) stranamente oscura e selvaggia, e continua con un Andante scherzoso, più Allegretto dall’incipit quasi schumanniano contenente episodi polifonici d’un leggiadro umorismo. L’affascinante singolarità della Sonata si manifesta anche nel Finale, per il quale, se prima si era fatto il nome di Schumann, converrà fare quello di Mendelssohn ad illustrarne il carattere elegantemente patetico e concitato. Nella Sonata in fa maggiore, la celebrata Primavera, tutto appare invece più familiare e consueto, nella fluente e fin troppo ben tornita contabilità del primo tempo, in cui Beethoven tenta di emulare l’irrepetibile amabilità di certi Allegro mozartiani, come quello della Sonata K. 378. Dopo un Adagio contenente uno stupendo episodio centrale, ecco, per la prima volta, uno Scherzo, brevissimo e leggiadro, che conduce efficacemente al soave rondò sopra un tema ingenuo di canzone. II secondo trittico appare nel 1803 e riunisce sotto il numero d’opera 30 tre Sonate stilisticamente ed esteticamente assai differenti. La prima, in la maggiore, é forse la più modesta di tutte le Sonate beethoveniane per pianoforte e violino, anche se in origine aveva un Finale del tutto sproporzionato per grandiosità e vigore inventivo, agli altri due tempi. Beethoven se ne avvide, sostituendolo con una serie di elementari variazioni, e trovandogli più appropriata sede nella Sonata a Kreutzer. Se l’op. 30 n.1 é l’ultima delle Sonate beethoveniane per pianoforte e violino volte a un passato che lo stesso Beethoven aveva reso irrecuperabile, la successiva in do minore, è la prima a esserne quasi interamente emancipata e a costituire la prima grande affermazione del compositore in questo genere. Il suo posto è accanto alla patetica per l’eroica protervia (come ebbe a dire Busoni) del primo tempo e la tenerezza elegiaca dell’adagio cantabile. Dopo uno Scherzo conciso ed energico, il magnifico Allegro conclusivo, col suo tema struggente preparato di piena di contrasti dinamici, e il secondo grande Finale beethoveniano, dopo quello del Chiaro di luna ma, se ciò é possibile, di una tensione e ricchezza ancora maggiori. Al contrario, nella terza Sonata, in sol maggiore, tutto e amabilità, serenità e umorismo: tuttavia, anzi, proprio per questo, essa non é meno beethoveniana della sua tragica sorella, ne meno di questa bella e importante. II Tempo di minuetto centrale non ha più nulla dl settecentesco: si tratta piuttosto di una idealizzazione, o meglio di una citazione di minuetto, esattamente come avverrà nell’ottava Sinfonia. Le ultime due Sonate videro la luce a distanza d‘anni e sono da considerare come le massime creazioni beethoveniane del genere.
La prime di esse fu composta originariamente per il violinista anglo-polacco George P. Bridgetewer che le eseguì e Vienna insieme con l’autore il 24 maggio 1803. In seguito fu dedicata e Rodelphe Kreutzer, che Beethoven conobbe in casa di Bernadotte, allora ambasciatore francese in Austria, ed apprezzò in sommo grado. Il lavoro venne pubblicato nel 1805 come op. 47 col seguente titolo: “sonata per pianoforte e un violino obbligato, scritta in uno stile molto concertante, quasi come di un concerto “. L’insistere dell’autore sul carattere “molte concertante” dell’opera, indica già chiaramente che, in essa, Beethoven andò oltre l’equilibrio e la dimensione squisitamente cameristica d’impronta mozartiana. La concezione grandiosamente concertistica delle Sonata è ravvisabile fin delle prime quattro battute dell’introduzione lenta, affidate ad eloquenti accordi del violino solo, cui fa eco il pianoforte con une risposta che s’inabissa nei più oscuri meandri dell’armonia. Il presto iniziale è di gran lunga il movimento pie importante, ricco, complesso: vi predomina l’incandescente ispirazione degli anni del volontarismo eroico beethoveniano, con in più un brivido di demonismo inquietante, di oscura passione date dall’onnipresente voce del violino “concertante”, terribilmente calda e avvincente come quella del Re degli Elfi. Mai prima d’ore la dialettica concertante era stata cosi fitta e tesa fine allo spasimo, né le scritture dei due strumenti avevano raggiunto un tale gredo di splendore virtuosistico. L’Andante, più teneramente affettuoso che introspettivo, seguito da une serie di variazioni di vecchio stile ornamentale, segue un passo indietro rispetto elle folgoranti novità del primo movimento, verso la pacata evasione lirica di certi tempi lenti delle prima stagione beethoveniana. Il Finale, che (già lo si e detto), apparteneva all’op. 30 n. 1, è come la liberazione, in un focoso ritmo di giga, delle energie tremendamente compresse nel primo Allegro. Anche le Sonata In sol maggiore, l’ultima, pubblicata nel 1816 come op. 96, fu destinata e un grande virtuoso francese, Pierre Rode, che le eseguì la sera del 4 gennaio 1813 accompagnato al pianoforte dall’arciduca Rodolfo. A differenza delle Kreutzer Sonate, esse non vuole essere un’opera importante o, come oggi si direbbe, “di rottura”. Il suo poeto ideale è accanto alla Sonata in mi minore per pianoforte op. 90 o al Quartetto in fa minore op. 95: creazioni vibranti di intima e intensa poesia, sotto le spoglie dimesse di una seconda semplicità e di un apparente disimpegno espressivo. Col passare degli anni, Beethoven ha imparato la più difficile delle lezioni che Mozart potesse ancora impartirgli: quella di sapere essere sublime e insieme normale. Per questo la piccola Sonata op. 96 supera in bellezze assoluta e equilibrio la sua grandiosa e pretenziosa sorella. In vero la luce della grazia domina da capo a fondo questo capolavoro dai contorni purissimi e dal velo leggero che si apre in tono trepidante e interrogativo si espande in un breve me intensissime Adagio seguito da un Leggiadro Scherzo col Trio simile a un Laendler, e termine con uno dei più avanzati e maturi modelli di variazione beethoveniana, in cui il vecchio procedimento ornamentale ha ceduto il posto e une metamorfosi più profonda e integrale del tema.
Giovanni Carli Ballola

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