Beethoven: Missa solemnis

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Ci possiamo figurare a messa Mozart, vestito da chierichetto,
mentre beffeggia il prete per le castronate dette nella predica.
Haydn lo immaginiamo nelle panche davanti all’altare, seduto vicino
alle autorità, con lo sguardo un po’ scettico ma rispettoso.
Persino Schubert lo vediamo in chiesa, anche se forse non di
domenica – di sicuro non in Duomo, piuttosto in una parrocchia di
periferia. Bruckner invece all’organo, in tutte le funzioni.
Beethoven, no.
È arduo immaginarlo alle prese con i sacramenti
della Confessione e della Comunione.
Beethoven incarna il tipo del mangiapreti, pronto a sommergere di improperi e di ingiurie
irripetibili un povero Don Abbondio che avesse a capitargli per le
mani. Dio non c’entra in questo discorso, perché Beethoven non era
un miscredente. Anzi, il problema del sacro fu per lui un tema
dominante, che ha attraversato in varie forme l’intera sua opera.
Se non riusciamo a figurare Beethoven come un cristiano osservante,
ligio alla disciplina cattolica in cui fu cresciuto, ciò dipende
dal fatto che con lui si manifesta nella storia della musica quella
tendenza alla secolarizzazione della religione che in Francia aveva
preso le mosse dalla Rivoluzione, in Inghilterra dal pragmatismo
della city e in Germania dalla filosofia dell’idealismo. L’arte,
secondo l’opinione di questi pensatori, aveva sostituito il culto
nell’espressione dello spirito assoluto, che ogni epoca ha
incarnato in forme differenti. Detto in modo terra terra, i riti
della chiesa appartenevano, secondo loro, a una fase immatura della
civiltà, a un’epoca in cui il popolo aveva bisogno di simboli
semplici e ingenui per comprendere la questione religiosa e per
formarsi un concetto di Dio. Il mondo contemporaneo, di cui la
filosofia incarnava la modernità, non aveva più bisogno di quel
vetusto apparato di liturgie e di false credenze per entrare in
dialogo con il divino. Brutto affare, per la Chiesa. Malgrado fosse
passata tutto sommato indenne in mezzo alla tempesta napoleonica,
Roma vedeva minacciata la sua autorità spirituale in modo più
subdolo e pericoloso dal diffondersi di una cultura nuova, con la
quale non riusciva a entrare in sintonia. Nemmeno Lutero da parte
sua, dopo le lezioni di estetica di Hegel all’Università di
Berlino, se la passava meglio. La musica, elemento cruciale della
liturgia sia cattolica, sia protestante, fu la prima a fare le
spese della crisi d’identità in cui versava la chiesa all’inizio
dell’Ottocento. Un tempo primaria fonte di reddito per la maggior
parte dei musicisti, la musica sacra in Austria aveva cominciato a
decadere verso la fine del Settecento, quando molte cantorie furono
chiuse per ordine dell’Imperatore. Inaridita dalla mancanza di
autentiche voci creative, la produzione di messe e di brani
liturgici si allontanava sempre di più dalla parte più viva della
musica del suo tempo, salvo rare e problematiche eccezioni. Il più
clamoroso di questi unicum, manco a dirlo, fu la Missa solemnis di
Beethoven. Eccessivo in tutto, Beethoven non frequentava preti ma
arcivescovi come l’arciduca Rodolfo. Il fratello dell’Imperatore fu
a Vienna il suo più autorevole protettore e anche un munifico
committente. Costui ardì di chiedere al musicista una Messa, da
eseguirsi in occasione della sua consacrazione ad arcivescovo a
Colonia nel marzo del 1820. Beethoven intascò i quattrini e
consegnò la partitura a suo comodo, cinque anni dopo, nel 1824. In
compenso, Rodolfo ricevette in omaggio un’opera di profondità
spirituale senza precedenti e forse senza nemmeno discendenti,
almeno all’interno del suo genere. Il confronto con Dio, nella
Missa solemnis, prescinde in sostanza dalla mediazione della
Chiesa. In questa musica visionaria e grandiosamente immobile, come
una montagna spirituale, l’anima dell’uomo s’interroga senza posa
sulla sua natura e su ciò che significa la presenza di Dio nella
nostra vita. (o.b.)

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