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La genesi di Fidelio
Fidelio è l’unico lavoro teatrale realizzato dal maestro di Bonn.
Questo meraviglioso capolavoro, molto ambizioso e di una qualità teatrale e musicale assai pregevole, venne composto dall’autore al culmine della propria esperienza e maturità artistica e rivela nella sua originalità tutto lo stile tipico della maestosità creativa beethoveniana.
Nel 1804 il compositore rimase affascinato da Léonore di Jean-Nicolas Bouilly.
Il lavoro beethoveniano, ancora al giorno d’oggi, è pervenuto in ben tre versioni, ognuna piuttosto diversa dall’altra, di cui nelle moderne esecuzioni di prassi, solamente la prima e la terza sarebbero da considerarsi come “ufficiali”. È da tenere presente, comunque, che la versione originaria (quella che poi verrà considerata come la prima) del Singspiel in tre atti (nella seconda e terza versione gli atti poi furono ridotti a due), presentata il 20 novembre 1805 al Theater an der Wien non portava assolutamente il titolo di Fidelio, titolo quest’ultimo inserito dall’autore solo per la terza e definitiva versione, bensì quello di Leonore. Leonore oder die eheliche Liebe (Op. 72) (Leonora ossia l’amor coniugale), non incontrò il favore del pubblico tanto che Beethoven fu costretto a ritirare l’opera.
Gran parte dell’insuccesso fu dovuto, quasi sicuramente, all’eccessiva lunghezza del lavoro (tre atti). Un notevole peso dovette avere anche il momento storico molto travagliato per Vienna, che proprio in quei giorni era stata invasa dall’esercito napoleonico, creando un clima di generale paura per la città e i suoi abitanti (quasi tutti gli spettatori erano costituiti da militari francesi). Non si può, infatti, tacere sul peso anche politico del Fidelio, il cui tema della lotta contro la tirannia e dell’affermazione della libertà e della giustizia, estremamente caro a Beethoven al di là della contingenza storica, poteva trovare diretta giustificazione nella situazione in cui si trovava la città austriaca.
Nonostante le aspre critiche di chi accusava Beethoven di non sapere scrivere per le voci, di trattarle indistintamente come strumenti e di essere poco avvezzo al genere teatrale, egli arrangiò, avvalendosi di un libretto revisionato dall’amico Stephan von Breuning, una nuova versione in due soli atti del lavoro, ripresentata l’anno successivo (29 marzo 1806) sempre con il titolo Leonore (Op. 72a) (Leonore o il trionfo dell’amor coniugale) al Theater an der Wien, ma con non migliori esiti, tanto da costringerlo a ritirarlo nuovamente. Solo otto anni dopo (1814), dietro richiesta del Theater am Kärntnertor, Beethoven tornò ancora una volta su Leonore avvalendosi della collaborazione del giovane Treitschke, che corresse il libretto migliorandolo dal punto di vista teatrale. La versione definitiva con il nuovo titolo questa volta cambiato letteralmente in Fidelio andò in scena in quello stesso anno con successo il 23 maggio con Johann Michael Vogl come Don Pizarro.
Il segno più evidente del lungo travaglio compositivo è costituito dalle quattro ouverture scritte da Beethoven per il Singspiel: due nel 1804, una nel 1805 e un’ultima (quella definitiva) nel 1814.
Il compositore così descriveva la sua opera: «Di tutte le mie creature, il Fidelio è quella la cui nascita mi è costata i più aspri dolori, quella che mi ha procurato i maggiori dispiaceri. Per questo è anche la più cara; su tutte le altre mie opere, la considero degna di essere conservata e utilizzata per la scienza dell’arte».
Le ouverture di Fidelio
Beethoven sentiva la necessità di comporre un’appropriata ouverture per Fidelio, e ne compose complessivamente quattro versioni. La versione composta per la Prima del 1805, è il rifacimento dell’ouverture oggi nota come Leonore No. 1 (Op. 138). Il risultato di questo rifacimento è l’ouverture che al giorno d’oggi è nota con il titolo di Leonore No. 2 (op. 72). Quindi Beethoven partì da quest’ultima realizzazione per poi creare la Leonore No. 3 (Op. 72a) per le rappresentazioni del 1806. Quest’ultima è considerata da molti come la migliore delle quattro ouverture, sia per l’intensità drammatica, sia per il grande respiro sinfonico, ma aveva il difetto di sovrastare la scena iniziale dell’opera e di prefigurarne il finale, anticipando lo squillo di tromba risolutivo (raffigurante l’arrivo di don Fernando). L’una e l’altra ebbero grande fortuna come pagine orchestrali a sé stanti, ma proprio per la loro grandezza furono giudicate inadatte a fare da premessa a un’opera le cui prime scene presentano un carattere di commedia borghese. Beethoven quindi decise di apporre ulteriori modifiche (che abbandonò poco dopo) per una presunta rappresentazione del 1807 a Praga, che comunque non ebbe mai luogo. La versione che oggi è chiamata Leonore No. 1 (Op. 138), che in realtà era stata già scritta nel 1805, verrà solamente eseguita postuma e mai entrerà a far parte delle tormentate vicende creative del Fidelio . Nel 1814 Beethoven ne scrisse la versione definitiva (Op. 72b), molto più snella, che sembra adattarsi meglio per l’inizio dell’opera.
Le intenzioni finali di Beethoven sono generalmente rispettate oggi durante le rappresentazioni contemporanee. Gustav Mahler introdusse la pratica, comune fino alla metà del XX secolo, di suonare la Leonore No. 3 nel cambio di scena del secondo atto: alcuni direttori continuano tale
usanza.
Trama
Il soggetto è tratto da Léonore ou l’amour conjugal di Jean-Nicolas Bouilly, scritto a suo tempo per il musicista Pierre Gaveaux, e si basa su di un fatto realmente accaduto nella Francia del periodo del ‘Terrore’, di cui l’autore (all’epoca accusatore pubblico del tribunale rivoluzionario di Tours) parla anche nei suoi Mémoires.
Atto I
L’azione si svolge in una prigione a qualche miglio fuori da Siviglia, nel XVII secolo.
Don Pizarro è il governatore della prigione in cui egli stesso ha fatto imprigionare ingiustamente il suo nemico personale Florestan. La moglie di questi, Leonore, vuole ritrovarlo e, travestitasi da uomo e preso il nome di Fidelio, ne intraprende le ricerche. Le informazioni raccolte la indirizzano proprio verso il carcere di don Pizarro. Qui, per scoprire se Florestan è tra i prigionieri, fa in modo di entrare nelle grazie di Rocco, il carceriere, e, involontariamente, entra anche in quelle di Marzelline, la figlia di lui, che se ne invaghisce sdegnando le attenzioni di Jaquino, il giovane portiere della prigione.
Nel frattempo don Pizarro viene informato con una lettera dell’imminente arrivo del ministro di stato don Fernando, e teme che questi possa scoprire l’arbitrio commesso con l’arresto illegale di Florestan, che don Fernando ben conosce. Dà ordine, dunque, a Rocco di uccidere il prigioniero ricevendone, però, un rifiuto. Costretto a commettere personalmente il delitto ottiene, però, che Rocco prepari la fossa. Fidelio assiste al colloquio e sospetta che il prigioniero di cui parla don Pizarro sia proprio Florestan. Per scoprirlo convince Rocco a far uscire in cortile tutti i prigionieri, ma Florestan non si trova tra questi e Fidelio, rassegnato, non può far altro che seguire Rocco nelle segrete per aiutarlo a scavare la fossa.
Atto II
Florestan giace incatenato nel buio della segreta e si lamenta della perduta libertà. Entrano Rocco e Fidelio, che si era deciso a salvare comunque il prigioniero chiunque egli fosse. Non appena ne ode la voce invocare il nome “Leonore”, però, riconosce subito in lui il marito. Quando don Pizarro arriva per ucciderlo, Fidelio lo affronta e gli rivela la sua identità, ma il governatore è ben deciso a uccidere entrambi.
Uno squillar di tromba annunciante l’arrivo del ministro fa frettolosamente uscire don Pizarro dalle segrete, mentre Leonore e Florestan si abbracciano esultanti. Nella piazza del castello il ministro dà ordine che i prigionieri siano liberati e ascolta da Rocco il resoconto dei fatti. Leonore toglie personalmente le catene al marito e, mentre i crimini di don Pizarro vengono smascherati, si leva un coro in lode dell’eroina.